Approfondimenti e riflessioni sugli Haiku di Alberto Baroni

16.10.2022

APPROFONDIMENTI e RIFLESSIONI SUGLI HAIKU


ARTICOLI STRETTAMENTE LEGATI

ALLA COMPOSIZIONE DELLO HAIKU

E ALLA SUA INTRINSECA FILOSOFIA.


Come precisato nel titolo qui potete leggere alcune colte disquisizioni sugli Haiku che con pazienza e cognizione, dovuta alla mia lunga appartenenza all'Associazione Italiana Haiku, si possono trovare anche sull'WEB e delle quali ho fatto questo breve compendio.

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Fonte: Cinquesettecinque - blog italiano per lo studio della poesia giapponese -

autore Luca Cenisi.


L'ESTETICA DELLO SHIBUI


Termine fondamentale nella ricostruzione dell'estetica giapponese è lo shibui. Forma aggettivale del sostantivo shibusa, letteralmente "austerità" o, più probabilmente, di shibumi ("astringenza"), esso affonda le proprie radici nella poetica del Periodo Muromachi (1333-1568), indicando, essenzialmente, tutto ciò che è asciutto o "astringente", in contrapposizione a ciò che è amai ossia dolce.
Sebbene la trattatistica in materia di poesia haiku tenda a focalizzare l'attenzione del lettore su altri principi estetici (principalmente il wabi , il sabi, il mono no aware e lo yūgen), merita di essere evidenziato come anche lo shibui, con il suo fascino acerbo, discreto ed essenziale, abbia contributo in misura non trascurabile a ridefinire i contorni di un genere - lo haiku appunto - che fonda il proprio fascino sulla semplicità ed immediatezza di espressione, ossia sulla capacità, da parte dello haijin, di saper cogliere la realtà nel momento stesso in cui questa si manifesta, attraverso un procedimento di "quiescienza della mente" che non significa ablazione del sé, ma, ad un livello più profondo, riscoperta del sapore autentico dello spirito (kokoro no aji) latente in ogni cosa, nel qui e ora naturalistico.
Come rimarcato dallo scrittore e poeta giapponese Haruo Satō (1892-1964) nel suo Fūryū no ron ("Discorso sull'eleganza") del 1924:

L'eleganza - o, quantomeno, l'eleganza così come perfezionata da Bashō [e da altri poeti] - è, essenzialmente, un'estrema intensificazione della sensibilità. Non importa quale sia il suo peso religioso o filosofico; essa è fondamentalmente artistica. Nella letteratura, l'arte dell'eleganza predilige una poetica estemporanea, quanto più vicina possibile al silenzio; nella pittura, invece, dipinti monocromatici, prossimi al vuoto.²

Lo shibui, con quella sua eleganza minimalista e "pungente", adatta al buon gusto dell'epoca nella quale questo termine è entrato nel linguaggio comune, venne ben presto svincolato dai confini estetici del colore e della forma, per abbracciare - più in generale - atteggiamenti sociali e stili di vita. In questo senso, assumono un peso determinante le parole del critico e filosofo Yanagi Sōetsu (1889-1961):

Proprio in una bellezza ricca di implicazioni interiori risiede il carattere discriminante dello shibui. Non una bellezza ostentata al pubblico dal suo creatore, dunque, bensì una bellezza che l'osservatore stesso deve trovare da sé. Così, man mano che il nostro gusto si affina, arriveremo inevitabilmente a far esperienza del fascino dello shibui.

Di seguito riportiamo un esempio di haiku del monaco Daigu Ryōkan (1758-1831) e rappresentativo dell'estetica dello shibui:


鉄鉢に明日の米あり夕涼み
tetsubachi ni asu no kome ari yūsuzumi

fresco serale -
nella ciotola di ferro
il riso di domani


Tratti essenziali dello shibui, dunque, sono rinvenibili in uno stile artistico che predilige colori tenui, trame semplici e un registro linguistico privo di eclatanze e ostentazione, anzi a tratti "oscuro" e misterioso come una stampa monocroma sumi-e. Sebbene chiaramente legato ad altri valori estetici, primi fra tutti il sabi e lo yūgen, lo shibui manifesta, al contempo, un forte legame con la dimensione del sociale in senso ampio, e del "gusto estetico" in senso stretto. Non è, infatti, raro leggerlo in associazione con un secondo termine piuttosto noto nella manualistica specializzata, ossia jimi ("semplice", inteso come forma di espressione del "buon gusto" comune) che, sebbene nato originariamente con una connotazione negativa e, a tratti, ironica, ha finito negli anni con l'inglobare la semantica di shibui, assorbendo quest'ultimo in un'unica espressione di "sobrietà" stilistica.

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Fonte: www.ilpalladino.it Autore Francesco Palladino, nota di Valeria Simonova Cecon.


NECESSITÀ DEL KIGO IN UNO HAIKU

(STAGIONE O SEMPLICE ELEMENTO STAGIONALE)


Premesso che, a livello internazionale, provo molta ammirazione per la compianta Jane Reichold da cui ho appreso a comporre tecnicamente uno haiku , non ne condivido la concezione troppo permissiva e lontana dalla tradizione degli antichi maestri, sia per quanto riguarda la struttura del 5/7/5 sia per quanto riguarda il kigo.Esteticamente il kigo è la condizione imprescindibile di uno haiku perché segna il rapporto che l'autore deve avere con la natura. Comunque la vogliamo chiamare ,Dio, Tao o pura estensione, la natura è il tutto di cui facciamo parte e a cui rimanda il nostro sentimento in ogni momento della nostra giornata e della nostra esistenza. Un componimento, dunque, sarà uno haiku se l'autore tende a stabilire con la natura un rapporto simpatetico di "comprensione" attraverso una foglia, un uccello, una stagione o un momento della giornata e della vita dell'uomo stesso, mentre sarà un senryu se vuol sorridere, ironizzare o sentenziare di entrambi. In ogni caso, uno haiku è finalizzato sempre a mostrare o a trascendere un fatto concreto, senza interferenze mentali o filosofiche.

A proposito del piccolo kigo, In base all'analisi comparativa fatta personalmente sui saijiki italiani e stranieri (Tobia, Tierno, Cascina Macondo, Gruppo di Studio italiano sullo haiku, Haikuku ecc.), attualmente si può concludere :

1) è kigo la stagione o l'elemento caratteristico stagionale.

2) è kigo anche il piccolo kigo (con eccezione del Gruppo italiano di studio sullo haiku.


Aggiungo in questa sede una mia precisazione: Gruppo facebook che è nato dopo la chiusura della AIH (Associazione Italiana Haiku della quale era presidente Luca Cenisi che, con le giuste motivazioni, sostiene la non valenza del Piccolo Kigo; come potrete vedere in suo articolo che trovate riportato di seguito a questo.)

3) soltanto Cascina Macondo ammette il "kigo misuralis " e il "kigo temporis"

4) soltanto nel saijiki di Enzo Tobia "vita" e "sempre" sono considerati kigo,

5) sulla scorta della preziosa ricerca di Valeria Simonova-Cecon " la parola luna (月, tsuki) così com'è, nuda e cruda, viene riferita all'autunno. Perchè in autunno la luna si vede meglio ed è la più bella dell'anno. La luna autunnale è quella luna, La luna doc. Perciò basta dire "luna" per pensare subito all'autunno".


Annotazione -Valeria Simonova-Cecon studiosa di letteratura giapponese e poesia haiku , a proposito del kigo e della struttura 575, ha scritto: "Per quanto riguarda gli haiku senza kigo, in Giappone sono una categoria a parte (c'è pure una voce nella wikipedia giapponese dedicata ai cosiddetti "muki haiku", haiku senza stagione) e una parte del grande saijiki abbastaza recente, pubblicato dall'Associazione Haiku Moderni (una delle più vecchie associazioni di haiku in Giappone), è dedicata a questo tipo di haiku. A proposito del 5-7-5, pochissimi rispettano questa regola al di fuori dal Giappone (in Giappone stesso c'è una corrente che non rispetta questa regola ma è in assoluta minoranza rispetto all'approcio tradizionale). In Russia, Francia, Austria/Germania, paesi Balcanici ecc. normalmente la regola del 5-7-5 non viene rispettata. In Italia, invece, la maggioranza degli haiin rispetta il 5-7-5.

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Fonte: CenisiWeb - Autore LUCA CENISI -

RIFLESSIONI SULLO STACCO NELLO HAIKU


Com'è noto, il kireji (letteralmente, "carattere che taglia") rappresenta lo stacco tra immagini o concetti giustapposti, una pausa/cesura atta a creare un effetto di sospensione, ammirazione o coinvolgimento con il qui e ora naturalistico. Alla soglia «tra il livello semantico e quello musicale-sonoro» (Iarocci), il kireji è elemento essenziale nella composizione di un buon haiku. Nei Paesi anglofoni (in particolare, gli Stati Uniti), il problema della riproduzione di questo elemento sostanzialmente non si pone; alcuni dei più importanti critici e studiosi di letteratura giapponese dell'ultimo secolo come Reginald Horace Blyth (1898-1964), Harold Gould Henderson (1889-1974) e William J. Higginson (1938-2008), infatti, hanno reso lo stacco (kire) attraverso un uso intensivo dei segni d'interpunzione, ben comprendendo come, in Occidente, le "parole che tagliano" siano fisiologicamente impossibili da trasporre con assoluta fedeltà.

In Italia, invece, pare che la "questione kireji", circoscritta essenzialmente all'aut aut "punteggiatura sì/punteggiatura no", debba occupare un posto di rilievo nelle discussioni all'interno dei vari Gruppi Facebook. Si presta, cioè, molta più attenzione a come rendere graficamente lo stacco che a come comprendere correttamente le tecniche attraverso cui perfezionarlo (torihayashi, nibutsu shōgeki). Così, coloro che ritengono l'impiego dei segni di punteggiatura una "violazione"dei canoni tradizionali giapponesi ammettono poi - paradossalmente - altri artifici letterari, come ad esempio il piccolo kigo, che, giova ripeterlo, è privo di fondamento storico-teoretico (il riferimento stagionale, secondo quanto rimarcato da Seki Ōsuga, trova rappresentazione solo nel kigo e nel kidai, entrambi radici del più antico ki no kotoba e del kisetsu no goaisatsu o "saluto stagionale" presente nello hokku della r. Anziché concentrare i propri sforzi critici verso una rivalutazione del dato naturalistico (il cosiddetto "spirito stagionale" o kikan), dei principi basilari dell'estetica haiku (sabi, wabi, mono no aware, karumi, yūgen, ecc.) o del fūryū, questi Gruppi pongono categorici divieti ai loro iscritti, come il non utilizzare le virgole, i punti e i trattini, ed incoraggiandoli, al contempo, a far propri altri espedienti formali, come il trattino basso ("_"), l'uso della maiuscola all'inizio del secondo rigo di cesura o l'assenza totale di punteggiatura.

Personalmente, non ritengo vitale la questione. Fintantoché sussiste una stacco ben riconoscibile all'interno dello scritto, infatti, l'autore è libero di adottare la convenzione segnica che più gli aggrada. Conta, cioè, la sostanza e non la forma. Lo stesso Matsuo Bashō ci porta eloquentemente al nocciolo del problema:

«È per coloro che non sono in grado di distinguere tra una poesia "divisa" e una "non divisa" che i primi poeti hanno introdotto l'uso del kireji. Se qualcuno colloca una di queste parole all'interno di uno hokku, sette od otto volte su dieci lo hokku verrà diviso. Nei rimanenti due o tre casi, tuttavia, esso risulterà indiviso, sebbene contempli al proprio interno una parola di cesura. Parimenti, esistono hokku che risultano divisi anche se non hanno alcun kireji.» Ciò che intende il Maestro, è che la cesura non dipende dalla sua forma rappresentativa, ma dall'essenza stessa dello stacco, dalla giustapposizione di immagini apparentemente inconciliabili, ricondotte ad unità proprio attraverso lo spirito poetico che pervade l'intero haiku. Maiuscole, virgole, due punti: tutte queste sono convenzioni grammaticali proprie delle lingua occidentali (ricordiamo che la lingua giapponese non pone distinzione tra caratteri maiuscoli e minuscoli e, dunque, anche le lettere maiuscole sono "a rigore" un elemento spurio), ma proprio perché lo haiku occidentale è una trasposizione di quello giapponese (scritto su un unico rigo verticale e 17 on) non è possibile far aderire al cento per cento il nostro registro espressivo a quello dei grandi haijin del passato.

Dobbiamo mediare tra un imprescindibile desiderio di conservazione dei canoni classici e l'esigenza fisiologica di "fare haiku" nella nostra lingua madre, lingua che non contempla un catalogo di termini a valenza "divisoria" (eccettuate, forse, le interiezioni), ma simboli grafici convenzionali atti a conferire tonalità ed espressione al testo, oltre che a svolgere funzioni di pausa e di sintassi.
Allo haijin occidentale (e, dunque, anche a quello italiano) è innanzitutto richiesto di aderire a quel cammino di verità e bellezza (fūga no michi ) cui tanta importanza è stata data da Bashō e dalla sua Scuola, per raggiungere quella verità poetica (fūga no makoto) che è il cuore stesso dello haiku.

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Fonte: Sito web: Studiare (da) Giapponese - Autore Riccardo Gabarrini

NB: Per chi vorrà leggerlo questo piccolo trattato spiega l'origine di questa espressione.


MONO NO AWARE, OLTRE IL VELO DELLA BELLEZZA


Il significato dell'espressione 物の哀れ mono no aware si è per certi versi perso nel manto di fascino che l'ha ormai avvolta. D'altronde dare spiegazioni complesse di cose molto semplici è una tentazione molto comune quando si parla di letteratura e ancora di più quando si parla di Giappone e giapponese tra noi appassionati di Giappone. Oggi cercheremo dunque di separare il concetto dalla parola, vedremo da un lato dove nasce questa affascinante idea, e dall'altro vedremo come nasce questa banale (sì, banale) parola.

Mono no aware è un'espressione nata dalla critica letteraria per indicare un concetto che affiora spesso, da mille anni a questa parte, nella letteratura giapponese (prosa e poesia) così come al cinema (dai film in bianco e nero agli anime di ultima generazione).

Il concetto in questione è quello di una partecipazione emotiva di fronte a determinate scene che ci ricordano la caducità delle cose, come tutto sia destinato a passare, morire.

Si avvicina molto all'idea espressa da Virgilio nell'Eneide e sintetizzata nell'espressione "lacrimae rerum" (lacrime del/per le cose), che Virgilio fa usare ad Enea quando questi capisce d'essere al sicuro perché si rende conto di essere tra persone che si commuovono di fronte all'impermanenza delle cose, alla fragilità della vita umana.

Dunque sebbene quello di "Mono no aware" non sia un concetto del tutto nuovo, né solo giapponese, racchiude qualcosa in più del lacrimae rerum di Virgilio.

Parlare di "commuoversi al pensiero della fine", di fronte alla morte, sarebbe riduttivo. Va detto per esempio che "commozione" è forse un termine eccessivo, perché l'idea dietro l'espressione mono no aware molto spesso porta con sé una serena rassegnazione. C'è commozione mentre il personaggio contempla la scena (o lo spettatore ammira l'opera), ma senza pianto, senza tragedia; gli si unisce invece un'idea (per quanto vaga) che richiama la meraviglia di fronte alle cose.

Mono no aware indica ad esempio l'incanto che un bel tramonto porta con sé, significa percepirne la bellezza, con la consapevolezza, però, che qualcosa di così bello è irripetibile ed avrà presto una fine

Insomma, nell'ammirazione e nella quieta commozione che la scena suscita si annida anche un sereno disincanto, privo sia d'amarezza che di trasporto, una chiara visione del mondo nella sua ineluttabilità e caducità.

La filosofia espressa con le parole Mono no aware unisce così incanto e disincanto; è uno sguardo calmo sulla fine e sull'oblio oltre il velo della bellezza e del sentimento.

Proviamo però a distinguere tra la "filosofia" e l'espressione in sé: "Mono no aware" vuol dire tutto ciò? No. Da un punto di vista etimologico la traduzione di questa espressione potrebbe essere "la commozione (o lo stupore) di fronte alle cose", mentre la sua traduzione letterale rischia di essere ancor più deludente purtroppo, quasi banale.

Aware è una parola di origine giapponese che, in tempi relativamente recenti, si è iniziato a scrivere あわれ ma che in origine era あはれ ahare (molti suoni "ha" nel giapponese sono divenuti "wa" con il tempo... è successo lo stesso con il famoso termine "kawaii"). あはれ ahare deriva invece da あは aha seguita da un suffisso (れ re) che non ne altera il senso. E cosa significa aha? Più o meno quel che significa il nostro "oooh"! In origine era un'esclamazione usata per esprimere un intenso sentimento, proveniente dal profondo del cuore, un sentimento che poteva essere di gioia, stupore, ammirazione... ma anche di tristezza e di dolore.

Era ancora questo il significato di aware quando venne usato a corte da Sei Shounagon oltre mille anni fa nel suo Makura no Soushi (commenti sul cuscino), quando fu usato nel suo Genji Monogatari da Murasaki shikibu (che in termini più moderni dovremmo chiamare "Lady Violet").

Ma i sentimenti che sfuggono come un sospiro all'autore non erano appannaggio femminile: aware è usato anche dal guerriero, monaco e poeta, Saigyou, quando, sul finire dell'epoca Heian, durante un viaggio si commuove di fronte allo spettacolo della luna e pensa a come guardare la luna e dire "aware" sotto il cielo della capitale, in confronto non aveva valore, per un poeta era solo un modo di ingannare il tempo e nulla più.

Durante il Medioevo giapponese (1185-1573 d.C.) il significato di aware però cambiò, o meglio, "si ridusse", perdendo, in un certo qual modo, un po' del suo fascino. Si iniziò ad usare l'espressione あっぱれ appare, ottenuta sonorizzando, cioè "rafforzando", il suono della parola あはれ ahare (d'altronde H e P sono "parenti stretti" nella lingua giapponese). Rafforzandone il suono se ne "rafforzò il senso" e appare venne usata per indicare stupore, ammirazione (come oggigiorno) ma anche grande sorpresa, intensa tristezza e perfino per dare un senso di aspettativa o per aggiungere un tono di risolutezza ...tutti significati che nella lingua moderna sono stati dimenticati o quasi. D'altronde i kanji che gli sono stati attribuiti sono quelli di "bel tempo" (天晴れ): come potrebbe avere significati negativi?

Cos'è successo nel frattempo ad ahare? Anche lui ha ricevuto dei kanji che ne hanno meglio fissato il significato: oggigiorno si scrive 哀れ o 憐れ, cioè con i kanji che indicano un dolore ed un senso di pietà, compassione, rispettivamente. Nei casi in cui serve ad esprimere commozione si dovrebbe usare rigorosamente la scrittura in kana (caratteri fonetici, diversamente dai kanji sono privi di significato, come le nostre lettere). Dunque al giorno d'oggi si scriverà あわれ aware, ma era あはれ ahare fino a non molto tempo fa. Ancora ad inizio '900, per esempio, lo scrittore e poeta Haruo Satou scriveva: あはれ、秋かぜよ情あらば伝えてよ ahare aki kaze yo kokoro araba tsutaete yo, che reso in termini moderni sarebbe qualcosa come "Aaah... Vento d'autunno, per favore, se anche tu hai un cuore, falle sapere che [...]"; è l'inizio di una poesia in cui Satou ci lascia intravedere il suo eterno amore per la moglie... la moglie di un altro, anzi, per la precisione la moglie del suo amico, il famoso Tanizaki Jun'ichiro.

Le origini quasi banali dell'espressione aware nulla tolgono alla commovente bellezza del pensiero giapponese riassunto nell'espressione mono no aware, spero però che queste poche righe permettano a tutti di scostare il velo che tanta bellezza inevitabilmente crea e di cogliere la differenza tra il reale significato della parola da un lato e, dall'altro, l'idea, quasi filosofica, a cui è stata associata.


FONTE: Cenisiweb - Autore LUCA CENISI

Figure retoriche e Haiku


Possiamo dire che, nello haiku classico, le figure retoriche trovano poco spazio. D'altro canto, essendo artifici del discorso finalizzati a produrre un dato effetto, esse contrastano con l'adozione di un linguaggio semplice, diretto ed immediato; in tali contesti, più che ricorrere a "figure di contenuto" o "di parola" come la metafora, l'iperbole o l'allegoria, il poeta deve saper utilizzare sapientemente la giustapposizione (toriawase 取り合わせ) tra immagini - che in sé permette di evocare suggestioni molto ampie e complesse - ed appoggiarsi a quella "riduzione espressiva" data dalla brevità dello scritto che non significa sinteticità o privazione, quanto piuttosto apertura ad una molteplicità di letture
Altre figure, come quelle fonetiche o di suono, l'enjambment, l'allitterazione e l'anafora, possono invece essere presenti nel testo, purché non se ne abusi e derivino da una composizione spontanea e non elaborata "a tavolino" (penso in particolare alle ultime due, posto che, personalmente, non amo l'inarcatura).
Ricordiamo, comunque, che nei gendai haiku 現代俳句 o 'haiku moderni' il discorso è più complesso. Data la loro apertura ad un registro espressivo più libero ed immaginifico, capace di aprirsi ad istanze appartenenti a correnti di varia natura, non è assolutamente raro imbattersi in figure retoriche.
Kakio Tomizawa (1902-1962), esponente di rilievo dello shinkō haiku undō新興俳句運動 o 'Nuovo haiku emergente', infatti, influenzato dal simbolismo e dallo sperimentalismo artistico occidentale, introdusse nei suoi scritti elementi quali la metafora, l'analogia e l'astrazione, e come lui diversi altri poeti della sua epoca ed autori a noi contemporanei.


Alberto Baroni

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